domenica 28 aprile 2013
Il cuore di Sergio
Quel pomeriggio, al funerale di Sergio, avevo finalmente capito.
Sergio era un alpinista, ed era morto scivolando nella vasca da bagno. Aveva sempre detto a noi compagni, avendo lui in sommo spregio croci e terre consacrate, di lasciarlo lassù, quando, come lui sperava, sarebbe morto sulle sue montagne. Per questo, trafugato il cadavere, complice Mario, lo avevamo fatto cremare e, seduti attorno al tavolino, sul quale svettava l’urna metallica, ci scambiavamo densi silenzi, in attesa dell’idea.
Fu ancora Mario a prender le redini e, spiegata una carta, ne indicò con il mignolo un punto che tutti noi conoscevamo, traguardandolo, con l’occhio strizzato, dal dorso del braccio. Quando, due giorni più tardi, raggiungemmo il canalone, il cuore di Sergio aveva già ripreso a battere, e io cercavo, leggendo i fatidici ultimi due versi di Itaca, di andare a tempo con il palpito immaginato di quel cuore per un attimo intravisto e ora, chissà quanto lontano, nuovamente sprofondato in un petto d’uomo.
Stranamente, in seguito, abbiamo sempre pensato al pomeriggio davanti al tavolino come al vero funerale; portare Sergio al canalone, dimorarvelo e ritornare aveva invece finito per acquistare, ai nostri occhi, la stessa luce tiepida di ogni altra spedizione – perché anche quella volta, come sempre, la meticolosa preparazione e l’immaginazione, che avevano previsto e replicato ogni gesto e pensiero, tutto era stato di gran lunga più intenso prima, specialmente quel pomeriggio. E dei due giorni in montagna non restavano che la fatica, il vento e la leggera cantilena di neve che aveva accompagnato il mio Kavafis, pronunciato così sottovoce.
Fu dopo qualche settimana che incominciai a tormentare Mario, ma lui non voleva sentire ragioni. Eppure era così importante per me conoscere il nome di quell’uomo, né comprendevo la sua riluttanza davanti a una richiesta che ritenevo perlomeno legittima. Si arrese quando minacciai di rivelare al padre di Sergio l’esatto contenuto della cassa che in tanta pompa avevano seguita e poi sepolta, al funerale ufficiale. Due giorni dopo incontrai il cuore di Sergio.
Leggermente scosso dal vagone e dalla giornata, tornavo di sera, distratto dai riflessi sul finestrino. L’altro viaggiatore, in piedi in mezzo allo scompartimento, stava cercando qualcosa nel suo borsone. Chissà se anche lui ha un altro cuore, pensai. La visita a Giulio mi aveva a un tempo deluso e inquietato, e la presenza del cuore di Sergio, ben nascosto da una pesante camicia a scacchi, ma per un attimo palesato dal sussulto di una vena sul collo scarno dell’ospite, mi aveva reso indicibilmente triste.
Non mi spiegavo come non si fosse verificato il minimo rigetto, come due corpi, tanto simili organicamente, potessero avere due vite e due persone tanto diverse. Sergio allegro, veloce di cervello e di parola, sincero, altruista, amante della montagna; Giulio grigio e malato, umorale, taciturno, disinteressato a tutto ciò che non è musica, ogni tanto va al mare ma non gli piace camminare troppo sulla spiaggia, fuma anzi fumava. Certo, era appena stato operato, ma io mi ero immaginato in lui la faccia estasiata del vincitore di lotteria, che pensa a come spendere l’enorme guadagno il più in fretta possibile; invece, stava in un angolo, scuro, e a malapena rispondeva alle mie domande, riconosco, un poco indiscrete e forse importune.
Di quell’incontro avevo provato a dimenticare la pena e la delusione; ma il turbamento, che non mi abbandonava, per il destino del cuore di Sergio mi aveva infine spinto a una pericolosa telefonata. Fu così che trascorsi un intero pomeriggio con la voce di Giulio, e mutai opinione sul suo conto. Il suono delle sue parole, pronunciate lentamente e ben cadenzate, al ritmo di un respiro ancora pesante, aveva cancellato l’immagine dell’uomo grigio nella stonata camicia a scacchi che tanto mi aveva colpito. Il suo ansimare a metronomo, amplificato dall’apparecchio, rendeva i suoi silenzi ben più concreti dei miei discorsi; ma io volevo che fosse lui a parlare, a mostrarsi, a giustificarsi, a rendersi almeno un poco familiare.
Curiosamente, verso la fine della conversazione narrò di sé un episodio che, molto simile, era accaduto anche a Sergio; glielo feci notare divertito, e lui serio replicò — «Sai, Carlo, mi sento come una donna che porta in grembo il suo bambino. Certo, con la differenza che io non potrò partorire, e non me ne separerò mai. So che le mamme stringono i loro piccoli per illudersi di averli ancora dentro di sé – io spesso porto le mani al petto e mi accarezzo, credo, con il medesimo sentimento. Io amo Sergio, e sono felice di quella coincidenza che abbiamo scoperto appartenere a entrambi; ora io porto con me anche la sua storia, sebbene la conosca molto poco. E allo stesso modo amo te, che amavi Sergio, e mi odi per avergli rubato il cuore».
La cornetta mi scivolava dalla mano mentre, inerme, ascoltavo le sue parole. Interrotta la comunicazione, dissi piano, come se Giulio potesse in qualche modo ascoltarmi — «Che ne sai di chi odio e amo? Agli uomini non è concessa l’emozione di sentire qualcuno dentro di sé, se non, in modo del tutto imperfetto, attraverso la sodomia; dici di sentirti gravido del cuore di Sergio, ma che ne sai?». Giulio, credo, non avrebbe saputo rispondere comunque.
Finì così quell’anno funesto; e ne finì un altro, e un altro. Più di due anni dopo quella telefonata ricevetti una lettera di Giulio, dall’Argentina. La busta conteneva anche alcune fotografie che lo ritraevano, in impeccabile tenuta alpinistica, malamente aggrappato a una parete di ghiaccio; la lettera iniziava con «El Chaltén, 23 luglio. Carissimo Carlo,» ma s’interrompeva dopo un paio di frasi di circostanza – sul retro del foglio, una manciata di parole spagnole con la traduzione approssimativa e alcuni appunti di spese in pesos.
Questa volta, per raggiungere Giulio non mi sarebbe bastato il treno; ma così come lui aveva dovuto andare laggiù, anch’io dovevo andare da lui.
Lo rividi molto cambiato, diverso anche rispetto alle fotografie, scattate evidentemente tempo prima – gli occhi ancora più incavati, la barba leggera che rendeva il suo viso evanescente, l’arsura che lo tormentava. Sembrava impossibile che fosse soltanto il nostro secondo incontro, tanto intensamente l’avevo pensato per tutto quel tempo; anche lui mi aveva pensato, disse, e ci abbracciammo.
La Patagonia rendeva tutto così spontaneo, i gesti e le parole; aveva persino insegnato a Giulio un po’ di alpinismo. Ma entrambi sapevamo che era stato il cuore di Sergio ad averci portato laggiù, capovolti nella rincorsa del nostro destino, che sembra sempre precederci e invece ci scorta da dietro, e non ci abbandona mai.
Non ci abbandonò neppure allora, quando una notte mi toccò di farmi morire fra le braccia Giulio, che con gli ultimi respiri si disperava per non aver fatto in tempo a imparare bene a scalare; né, accampati nei pressi del Cerro Norte, potevo sperare di trovare il modo di portar via il cuore di Sergio, perché potesse trovare un nuovo ospite. L’ingiusto balletto era all’epilogo, tutti quei dover essere che ci avevano oppresso, me, Sergio, Giulio e gli altri, improvvisamente mi si rivelavano affatto privi di senso.
Raggiunsi l’estancia più vicina dopo due giorni; deposi Giulio e mi aiutarono a seppellirlo. L’uomo anziano mi porse una vecchia pipa d’ebano, e io tirai una gran boccata, come se avessi voluto respirare tutto quel cielo ignaro. Ci salutammo con gli occhi e m’incamminai, da solo con il mio cuore.