mercoledì 15 maggio 2013

Il capro


Ero andata in cucina a cercare un ago per la siringa. Non ricordo che cosa fossero quelle iniezioni, so che il dottore gliene faceva tre o quattro al giorno per aiutarlo a superare le crisi. Ricordo l’odore di disinfettante nella camera, nel corridoio, quello di caffè in cucina, la luce incerta del vecchio neon, io che cercavo nel cassetto senza trovare. Da diversi giorni il rituale era il medesimo, preparavo numerose medicine e le allineavo sul comò, sterilizzavo la siringa, la porgevo al dottore che la riempiva, aspirando il liquido trasparente di una fiala, faceva uscire l’aria, imbeveva di alcol un batuffolo di cotone e si avvicinava a lui con la siringa in mano, mimando il gesto della puntura. 
Ero stata con lui in camera, poi, malgrado lo vedessi sofferente, andai in cucina ed ero già con la mente a quando il dottore gli avrebbe fatto ancora una volta l’iniezione e lui sarebbe stato meglio, anche se solo per poco, e tutto questo era come già successo, e il fatto che in realtà io fossi ancora in cucina non significava niente. Cercavo gli aghi e non li trovavo, e non erano al loro posto, e tutta me stessa era nel cercarli senza smanie ma con intensità e determinazione inflessibile, automatica, vivevo in quel momento per trovare un ago affinché il dottore potesse fargli la puntura, e mentre rovistavo nella credenza immaginavo il suo viso sorridere se pure debolmente, i suoi occhi accendersi ancora un poco.
Fu mentre ancora cercavo che morì. Mia figlia mi raggiunse in cucina, e me lo disse nel modo più bestiale che potesse trovare per dirmi la morte di mio marito. Ricordo ciò che mi colpì di più in quel momento, il suo viso suino falsamente contrito, e restai, con gli occhi sull’ago trovato, immobile, terrea, tutto il mio essere in quell’ago, ero quell’ago diventato, in un attimo, completamente inutile, privo di senso, svuotato di significato. Così la mia vita in quel momento – provai il desiderio di strangolarla, ma fu solo un attimo. Non so come, mi ritrovai in camera, mentre ancora cercavo di montare la siringa, e nessuno osava torgliermela di mano.
Più tardi, mentre lo vegliavo, scorgevo la luce che filtrava dalla fessura della porta, e sbirciando potevo vedere mia figlia nel semibuio del corridoio confabulare con il dottore, e non potevo, come avrei potuto sbagliarmi – il mezzo sorriso che aveva sul muso di denti finti, sono certa, era il ghigno della morte che era venuta a prenderlo. Richiusa la porta continuai a vegliarlo a lungo, accarezzandolo talvolta, con in mano ancora la siringa, e non so bene che fine abbia fatto, nessuno più l’ha adoperata, di quelle siringhe di vetro che si facevano bollire nella cassettina metallica per sterilizzarle, cosi che io non potessi mai più mettere sul gas un pentolino senza ricordarmi di quando avevo sterilizzato la siringa e lui era morto lo stesso, senza aspettare la puntura, mentre io già mi ero immaginata il dopo. Mi sentivo derubata, svuotata, deprivata, mutilata di un pezzo del mio corpo. Se n’era andato lui.
Dopo alcuni giorni neppure più mia figlia mi pregava di lasciare la siringa, e so di averla ancora, da qualche parte, forse tra i suoi calzini, ma non allevia la sofferenza, avrei dovuto gettarla nella fossa, con l’anello di matrimonio – il suo, gliel’ho lasciato, stava ancora bene alle sue mani affusolate.
Lui era davanti a me, in penombra, senza rosario fra le mani, senza scarpe, con un vestito da pinguino troppo cresciuto. Non avrei voluto che finisse così. Lo desideravo davvero, ma non avevo la forza di spogliarlo per mettergli addosso qualcosa di meno ridicolo. Povero amore mio, che pena farsi maneggiare da estranei come vecchie valigie, come animali macellati, come sacchi di stracci.
Il caseggiato di fronte appena illuminato sembrava un presepe. Seduta al balcone, aspettavo il mio tempo immobile, querelato in un ago fuori posto.

Paul Castel, Piccole scortesie per gli ospiti (1976) | trad. Anna Genevois